lunedì 21 agosto 2017

La forza di gravità

 Sicuramente una delle sensazioni più importanti che ci condiziona tutta la vita è quella provocata dagli effetti della forza di gravità.
L’aspetto attrattivo della forza gravitazionale è la sua peculiarità. Quando contrastiamo tale forza dobbiamo impegnarci a fondo, utilizzando un’energia supplementare. È quello che facciamo quando camminiamo in salita, ci arrampichiamo su una corda oppure lanciamo un sasso.
  L’intensità del campo gravitazionale tra due corpi è descritta dalla relazione F = (Gmm’)/d2 dove G è la costante di gravitazione universale che vale 6,6720*10-11 Nm2kg-2, d è la distanza tra i due centri di massa e m e m’ sono le masse dei corpi. [1]
  Le masse della Terra e della Luna sono, rispettivamente 5,98 *1024 kg e 7,35*1022 kg, la forza gravitazionale tra la Terra e la Luna, la sua intensità, è allora di circa 1,98*1020 newton. [2]
  La forza gravitazionale è di tipo attrattivo e si manifesta attraverso una accelerazione che può essere quantificata. Tutti i corpi sono soggetti alla stessa attrazione gravitazione – alla stessa accelerazione – da parte di una massa secondo la relazione g = GM/r2. [3]
  Un corpo posto ad 1 m dalla superficie è attratto dalla Terra con una forza di 9,8 newton ovvero la forza gravitazionale della Terra imprime, a qualsiasi oggetto, un’accelerazione di 9,8 m/s2. L’accelerazione che i corpi subiscono a seguito dell’attrazione terrestre è indipendente dalla massa del corpo; un oggetto con massa 2 kg viene sì attratto con intensità doppia rispetto ad un corpo con massa 1 kg ma oppone anche una resistenza due volte superiore, così come un oggetto di 3 kg viene attratto con intensità tripla, ma ha anche una resistenza tre più grande.[4]
  Naturalmente se consideriamo due corpi, uno con massa molto maggiore rispetto all’altro, è possibile considerare – per i nostri calcoli – solo l’attrazione del corpo che determina la forza più evidente. [5]
  Quando trattiamo la forza gravitazionale assumiamo che essa sia concentrata tutta nel suo centro di massa, come cioè se questa fosse concentrata in un particolare punto che, nel caso di corpi simmetrici (o assunti come tali), coincide con il centro geometrico. Similmente, due corpi che si attraggono (o, a maggior ragione, gravitino l’uno attorno all’altro) definiscono un centro di gravità comune che è in relazione con la loro massa. [6]
  È necessario fare una precisazione sui termini massa e peso perché, spesso, usiamo tali termini come sinonimi.
  La massa di un corpo è la sua inerzia, la resistenza al cambiamento rispetto al suo stato (di moto o di quiete) mentre il peso, la forza-peso, è la forza che un campo gravitazionale (terrestre, lunare, etc.) esercita sulla massa del corpo.[7] La massa è dunque localmente invariante al contrario del peso che dipende dall’interazione gravitazionale tra due oggetti dotati di massa (ed è, appunto diversa sulla Terra e sulla Luna – un uomo di 100 kg terrestri sulla Luna pesa circa 16,6 kg – ma è addirittura diversa sulla superficie terrestre (al livello del mare rispetto alla montagna) perché varia l’accelerazione di gravità. In conclusione, la massa è espressa in kg e il peso, che è una forza, dovrebbe essere espresso in newton: una massa di 1 kg “pesa” 9,8 newton, una massa di 2 kg pesa 19,6 newton… Ma quale reazione potrebbe avere una persone alla quale comunicate che non pesa 100 kg ma che esercita sul pianeta una forza di 980 newton?


  Concentriamoci ora sul lancio di un sasso. Quando lo tiriamo, per quanta forza possiamo mettere nel nostro braccio, dopo pochi secondi tornerà sul terreno. Solo per alcuni istanti riusciamo dunque a competere con la forza gravitazionale la quale, agendo incessantemente, alla fine, vince.
  È però possibile osservare che l’energia impressa al sasso sarà proporzionale alla sua velocità e, conseguentemente, allo spazio percorso lontano dal suolo. Ipotizziamo di lanciarlo parallelo al terreno per una distanza abbastanza lunga; in questo caso, se la velocità del sasso fosse sufficiente, da un lato la forza di gravità tende ad attrarlo ma, poiché la Terra curva sotto di esso, la sua distanza dal terreno potrebbe rimanere costante: il sasso entrerebbe in orbita nei confronti della Terra.
  Ma quale velocità deve avere un sasso per entrare in orbita rispetto alla Terra? Trascurando la resistenza dell’aria tale velocità dipende dalla massa del corpo attorno al quale si descrive l’orbita e dal raggio dell’orbita stessa secondo la relazione v = Ö(GM/r) dove G è la costante di gravitazione universale, M la massa corpo e r il raggio dell’orbita. Nel caso di un in orbita ad 1 m di altezza attorno alla Terra otteniamo un valore di Ö((6,6720*10-11 Nm2kg-2)*(5,98*1024 kg)) / (6,38*106 m ) cioè 7.908 m/s, 28.469 km/h!
  Possiamo anche chiederci quale è invece la velocità minima da imprimere ad un corpo affinché questi abbandoni l’orbita terrestre, la velocità minima che permette ad un qualsiasi oggetto di vincere per sempre la forza gravitazionale generata da una massa. Tale velocità, detta velocità di fuga, è riassunta dalla relazione Ö2GM/r che, nel caso della Terra, risulta essere Ö(2*6,6720*10-11 Nm2kg-2)*(5,977*1024 kg) / (6,38*106 m) cioè 11.184 m/s (40.261 km/h) a livello dell’equatore. [8]
  La velocità di fuga è la velocità minima iniziale alla quale un oggetto deve muoversi per allontanarsi indefinitamente da una sorgente di campo gravitazionale (non considerando altri fattori come l’attrito dell’aria). [9]
  L’idea è quella che presuppone di sparare un oggetto nello spazio, come se fosse un proiettile, con una spinta iniziale intensissima tale da produrre, per l’oggetto, la velocità di fuga. Naturalmente un razzo che si allontana da una sorgente gravitazionale non ha bisogno di raggiungere la velocità di fuga perché sospinto continuamente da un adeguato sistema di propulsione.




[1] È la massa gravitazionale. Massa inerziale e massa gravitazionale saranno trattate nel prossimo post dedicato alla Relatività Generale. 
[2] L’accelerazione espressa in m/s2 per la massa di 1 kg indica la forza in newton; un newton è allora forza che imprime un’accelerazione di 1 m/s2 alla massa di 1 kg. In assenza di altri campi gravitazionali esterni due corpi del peso di un chilogrammo ciascuno posti alla distanza di un metro esercitano, tra loro, una forza di 6,672*10-11 newton; alla distanza di un metro, due oggetti considerati puntiformi, per esercitare la forza di un newton, devono avere ciascuno una massa di circa 122.474 kg.
[3] È consuetudine indicare, per un pianeta o un corpo celeste, la sua gravità alla superficie.
[4] (6,672*10-11 Nm2kg-2)*(5,98*1024 kg) / (6,38*106 m)2 = 9,8 newton; in altre parole la Terra esercita, su un corpo con una massa pari a 0,102 kg, una forza di 1 newton.  Tutti i corpi, se lasciati cadere da una certa altezza, avranno una velocità istantanea di 9,8 m/s dopo 1 s, di 19,6 m/s dopo 2 s, di 68,6 m/s dopo 7 s e di 98 m/s (352,8 km/h) una volta trascorsi 10 s: sulla Terra un oggetto che cade aumenta la sua velocità di 9,8 m/s ogni secondo (nella realtà, per oggetti particolarmente leggeri, si deve considerare la resistenza dell’aria poiché, ad un certo punto, tale resistenza costringerà l’oggetto ad essere attratto a velocità costante detta velocità limite o di regime). Volendo possiamo anche conoscere il tempo impiegato, la velocità istantanea e l’energia sviluppata da un corpo che cade dall’altezza di 1 m; il tempo, descritto dalla relazione, Ö2s/g (oppure v/g) è di 0,4518 s; la velocità istantanea è una funzione del tempo attraverso la relazione v = gt sarà di 4,4 m/s (evidentemente lo spazio è definito dalla relazione ½ gt2 e la velocità media sarà = spazio/tempo così, un corpo, dopo 1 s di caduta libera avrà sì una velocità istantanea di 9,8 m/s  ma una velocità media di 4,9 m/s).
[5] Nel caso della Terra e di un sasso con massa di 1 kg anche il sasso attrae la Terra ma la differenza di massa è sbilanciata di 5,98*1024 volte e l’attrazione è, in questo caso, davvero irrilevante così come l’attrazione tra due uomini del peso di 100 kg posti ad 1m di distanza è quasi 15 milioni di volte inferiore rispetto all’attrazione che subiscono dalla Terra. La forza con cui la Terra attrae il sasso è la stessa con la quale il sasso attrae la Terra ma, quest’ultima, ha un’inerzia incredibilmente più grande il risultato è che la Terra produce una accelerazione di 9,8 m/s2 e il sasso produrrà un’accelerazione proporzionale a 1*9,8/ 5,98*1024 = 1,64*10-24 m/s2.  Analogo risultato si può ottenere considerando che l’accelerazione è data, in generale, dalla massa del corpo secondo la relazione g = GM/r2 (e risolvendo questa equazione per la Terra si ottiene sempre un valore di 9,8 m/s2).
[6] Il raggio della Terra all’equatore vale 6.380 km, quello della Luna 1.737 km mentre la distanza tra il centro della Terra e il centro della Luna è di  384.400 km. La Terra rappresenta il 98,7858% delle masse dei due corpi e il centro di gravità Terra-Luna risulterà spostato della stessa percentuale a favore della Terra e sarà dunque distante 384.400 * 98,7858% = 379.733 km dal centro della Luna a favore della Terra (a 4.667 km dal centro di quest’ultima circa 1.700 km sotto la superficie terrestre).
[7] Concettualmente la massa si determina, si misura, con una bilancia a braccia e piatti uguali; quando le due masse sui due piatti sono identiche i piatti saranno allo stesso livello e la quantità di massa che controbilancia la massa da determinare sarà uguale sulla Terra e sulla Luna. Il peso si determina con il dinamometro misurando la forza di richiamo della molla (si misura la deformazione di un materiale elastico – che è direttamente proporzionale alla forza applicata al materiale stesso – parallela al vettore forza da misurare; alla forza peso si contrapporrà la forza elastica della molla). La molla deve essere opportunamente tarata in modo che alla forza 1 newton corrisponda una massa di 0,102 kg.
[8] La velocità di fuga dal Sole è di 617 km/s mentre quella di Mercurio è di 4,4 km/s
[9] La velocità di fuga diminuisce all’aumentare dalla distanza dalla superficie terreste. Ad una distanza pari a 4 volte il raggio terrestre, 25.520 km  (dal centro della Terra) la velocità di fuga risulta dimezzata rispetto a quella della superficie. Poiché la forza di gravità diminuisce con il quadrato della distanza posto come uguale a 1 la velocità di fuga della superficie terrestre la nuova velocità di fuga sarà v = 1/Ö(d/6.380) km/s (es. 1/Ö ( 25.520/6380) =  1/Ö 4 = 0,5 rispetto a quella della superficie terrestre. Stesso discorso vale per definire la velocità che permette ad un oggetto di entrare in orbita.

lunedì 7 agosto 2017

L'atomo, le onde di materia e le nuvole di probabilità

All’inizio del XIX secolo si delinea la prima descrizione formale della teoria atomica della materia (J. Dalton 1803-1808) che è in accordo con le precedenti leggi della conservazione delle masse (A. Lavoiser,  1789) e delle proporzioni multiple (J.L. Proust, 1799). Secondo tale teoria la materia è composta da atomi, particelle microscopiche indivisibili e indistruttibili che risultano indistinguibili (hanno quindi stessa massa) per uno stesso elemento, non possono essere creati o distrutti, si combinano tra loro (anche con quelli di altri elementi) per formare i composti e sono in grado di essere eventualmente trasferiti da un composto all’altro.
Una più precisa teoria atomica permette di determinare il peso atomico degli elementi (S. Cannizzaro, 1858) che sono così riordinati – con peso atomico crescente e incolonnati per proprietà chimiche simili – evidenziando una periodicità ricorrente rappresentata in una tavola periodica (D. I. Mendeleev, 1869). E non tutte le case della tavola periodica devono essere necessariamente piene perché alcuni elementi sono ancora da scoprire.
  La discussione derivante dalla rilevazione dei raggi catodici (E. Goldstein, 1876; W. Crookes, 1880), un fascio di elettroni (J.J. Thomson, 1898), l’osservazione dei raggi canali o anodici riconosciuti come ioni positivi – atomi privati di uno o più elettroni – (E. Goldstein, 1886), nonché la successiva definizione del protone [1] decretano la nascita di quella branca della fisica conosciuta come fisica atomica.
  Elettroni e protone cancellano il concetto di indivisibilità dell’unità fondamentale della materia lasciando aperto il confronto per ipotizzarne una struttura.
   Il primo modello atomico (J.J. Thomson, 1898), in cui le cariche negative sono distribuite e controbilanciate in una sfera omogenea positiva (una sorta di panettone con gli elettroni che rappresentano gli acini di uvetta) è sostituito, dopo l’esperimento che impiega particelle alfa come sonda, dal modello atomico planetario (E. Rutherford, 1911). In tale esperimento si utilizza, per la prima volta, un fascio di particelle proiettile provenienti dal decadimento radioattivo (di radio) inviate perpendicolarmente ad atomi bersaglio rappresentati da un sottile foglio d’oro avvolto in altro materiale ricoperto di solfuro di zinco, usato come rivelatore. È stato osservato che una particella su ottomila era riflessa ad angoli maggiori di 90°. [2]
Ipotizzando un piccolo nucleo centrale, pesante e compatto, con gli elettroni che vi gravitano attorno è possibile spiegare la diffusione osservata. Il modello atomico planetario così descritto è sì in accordo con le leggi della meccanica, ma non con quelle dell’elettrodinamica. L’elettrone, di cui è stata frattanto misurata la carica (R.A. Millikan, 1909),[3] non può girare attorno al nucleo senza irradiare energia sotto forma di onde elettromagnetiche. Proprio perché elettricamente carico l’elettrone dovrebbe, infatti, durante il suo movimento di moto non rettilineo e uniforme [4], irradiare energia; e questa sua perdita di energia dovrebbe costringerlo, seguendo un percorso a spirale, a cadere sul nucleo emettendo radiazioni a tutte le lunghezze d’onda corrispondenti alle (infinite) posizioni occupate nel suo percorso. [5]
  L’idea di applicare il quanto di energia alla struttura elettronica dell’atomo attraverso il concetto di orbite circolari quantizzate (N. Bohr, 1913), identificando stati stazionari discreti, con un preciso contenuto di energia e nei quali l’elettrone non emette radiazione elettromagnetica, indica la strada da percorrere per una possibile soluzione. Il motivo per il quale l’elettrone ruotando attorno al nucleo si presenta in uno stato stazionario è dovuto al fatto che la lunghezza della circonferenza dell’orbita 2πr risulta essere multiplo intero del valore quantizzato nh/mv ovvero mvr = nh/2πmv (dove m è la massa, v la velocità, r il raggio dell’orbita e n è un numero intero da 1 a ¥ e identifica il numero dell’orbita, il suo contenuto energetico).[6]
   L’elettrone può inoltre assorbire energia solo se questa è sufficiente a far avvenire la transazione dell’elettrone dalla prima alla seconda orbita; l’elettrone, con un salto quantico, varia il suo stato energetico da fondamentale ad eccitato ma ritornerà (dopo circa 10-9 s) allo stato iniziale restituendo l’energia in eccesso sottoforma di radiazione elettromagnetica, in sintonia con gli spettri caratteristici di ogni elemento.
  Questo modello, che bene si adatta all’atomo di idrogeno e solo in parte ad alcuni metalli alcalini, sarà modificato introducendo orbite a diversa ellitticità  (A. Sommerfeld, 1915) aggiungendo, quindi, un secondo numero quantico, nel tentativo, parzialmente soddisfatto, di spiegare gli spettri degli altri elementi. L’originale spiegazione (H.A. Lorentz, 1900) del cosiddetto effetto Zeeman (P. Zeeman, 1896), cioè la suddivisione in triplette di una riga dello spettro della radiazione emessa da una sorgente posta in prossimità di un forte campo magnetico, è dovuta ad un terzo numero quantico che indica l’orientamento del campo magnetico creato dall’elettrone durante il suo orbitare attorno al nucleo.       
  Naturalmente è lecito chiedersi perché gli elettroni devono avere una preferenza per queste orbite, per un particolare momento angolare, legato al valore della costante di Planck.
  Nel caso delle onde elettromagnetiche tale costante ha introdotto l’aspetto corpuscolare delle onde.[7]  
  Perché non chiedersi se, questa volta, la relazione con la costante di Planck non spieghi per caso l’aspetto ondulatorio di un corpuscolo cioè dell’elettrone?[8]
  Se l’esistenza degli stati stazionari nell’atomo è spiegato utilizzando il quanto d’azione per giustificare le proprietà dell’elettrone, perché non assegnare all’elettrone un dualismo corpuscolo-onda cioè un aspetto ondulatorio?
  È dunque possibile ipotizzare che le condizioni di quantizzazione conducano all’introduzione di una componente ondulatoria degli elettroni in modo che la lunghezza d’onda di questo aspetto ondulatorio abbia un valore tale per cui l’orbita (2πr) ne contiene un numero intero, multiplo di h/mv così che possano sussistere gli stati stazionari: l’elettrone avrà un duplice aspetto, corpuscolare e ondulatorio, fondato sul quanto di azione.
  Proprio come ad ogni frequenza delle onde elettromagnetiche corrisponde un fotone con una determinata energia che ne evidenzia la caratteristica corpuscolare (p=h/λ), ad ogni particella di materia, con una determinata energia e quantità di moto, è associata un’onda caratteristica, una vibrazione, la cui lunghezza è definita dalla costante di Planck diviso la quantità di moto della particella stessa (L. De Broglie, 1924):

l = h/p

  Dato il piccolissimo valore della costante di Planck si capisce che è vano il tentativo di rilevare le onde di materia  per oggetti di massa del nostro mondo quotidiano. Una palla del peso di 1 kg che rotola ad una velocità di 1 m/s (circa 3,6 km/h, la velocità alla quale normalmente si passeggia) produce una lunghezza d’onda pari a 6,6 *10-34 m: davvero troppo piccola per essere rilevata! [9]
  Poiché le onde di materia hanno, di fatto, una lunghezza d’onda inversamente proporzionale alla quantità di moto, questa si dovrebbe manifestare, per elettroni lenti, in una regione di onde rilevabili sperimentalmente (L. de Broglie, 1924). Bombardando con elettroni dei cristalli di nichel sono state rilevate figure di interferenza sulla pellicola posta dietro al metallo, proprio come se il nichel fosse attraversato da onde, da raggi X, appunto, anziché da elettroni (C.J. Davisson, L. H. Germer; G.P. Thomson; 1927). La proprietà ondulatoria della materia si  è dunque manifestata per gli elettroni con un fenomeno legato alle onde, la diffrazione, e la materia ha davvero aspetti ondulatori!
  Le onde di materia sono associate al movimento di qualsiasi corpo ma, all’aumentare della massa e/o della velocità, diminuiscono rapidamente la loro lunghezza d’onda, tanto da far manifestare solo le proprietà corpuscolari. È proprio del tutto simile al caso diametralmente opposto in cui le onde elettromagnetiche manifestano in modo più evidente la loro seconda natura, quella corpuscolare, solo al di sopra di una certa frequenza, in virtù della quale sono capaci di espellere elettroni da un metallo dando luogo all’effetto fotoelettrico.
  Ma come possono le onde, alle quali sono associate i fenomeni di interferenza e diffrazione, manifestare proprietà tipiche dei corpuscoli? Nondimeno, come può l’elettrone, che è tipicamente un corpuscolo con massa e carica elettrica, avere proprietà ondulatorie?
  La luce manifesta aspetti corpuscolari e aspetti ondulatori o, meglio, le onde elettromagnetiche manifestano proprietà ondulatorie e corpuscolari così come le particelle hanno proprietà corpuscolari e ondulatorie: secondo il principio della complementarietà (N. Bohr, 1927), l’osservazione di uno dei due aspetti della stessa realtà fisica esclude l’osservabilità dell’altra.
  Nel mondo quotidiano le proprietà ondulatorie delle onde elettromagnetiche, quali ad esempio le onde radio, prevalgono su quelle dei corpuscoli perché l’energia dei fotoni interessati è mediamente molto piccola. E negli oggetti prevalgono le proprietà corpuscolari perché la lunghezza d’onda dell’onda associata è trascurabile se confrontata con le dimensioni dell’oggetto considerato e determina, in pratica, un continuo. Nel microcosmo, invece, a causa delle piccolissime masse in gioco, la lunghezza d’onda dell’onda di materia assume un significato importante perché ha dimensioni paragonabili a quella dell’oggetto d’indagine. [10]
  Il fatto di dover rinunciare, su scala atomica, alla netta distinzione tra onde e corpuscoli (giacché le onde manifestano proprietà corpuscolari e i corpuscoli si comportano come delle onde) evidenzia l’impossibilità di descrivere contemporaneamente questo doppio aspetto della natura definendo il limite, l’indeterminazione, dell’informazione ottenibile sperimentalmente.[11]
  La struttura elettronica dell’atomo, il concetto di orbite quantizzate, trova dunque adeguato sostegno attraverso l’idea delle onde di materia della meccanica ondulatoria. Le condizioni di quantizzazione del momento angolare non sono imposte ma derivate dalla natura ondulatoria dell’elettrone e le orbite contengono un numero intero di lunghezze d’onda pari a l = h/mv; l’elettrone può muoversi intorno al nucleo con questa lunghezza d’onda che è quella di un’onda stazionaria e, in questo modo, non irradia energia.
  Il dualismo corpuscolo-onda riesce a fornire una descrizione dell’elettrone in termini di onda [12] ma, in questo modo, non sarà possibile calcolare con precisione il raggio dell’orbita e l’impulso dell’elettrone: il modello ad orbite quantizzate è allora in contraddizione con il principio di indeterminazione.  
  Come fare dunque a descrivere l’evoluzione delle onde di materia nel tempo? L’idea del dualismo corpuscolo-onda trova la giusta dimensione matematica attraverso due vie: le equazioni di Schrödinger (E. Schrödinger, 1925) e la meccanica delle matrici (W. Heisenberg, 1925). Le due soluzioni sono equivalenti dal punto di vista fisico e descrivono la meccanica ondulatoria non relativistica.
  È stata l’equazione di Schrödinger a diffondersi più rapidamente rispetto alla meccanica delle matrici. Tale equazione, una funzione d’onda definita convenzionalmente Y (psi), descrive il propagarsi dell’onda associata al movimento di ogni particella. E se le particelle libere possono avere qualsiasi valore di energia e velocità – in quest’ultimo caso il limite massimo è rappresentato dalla velocità della luce – la situazione cambia radicalmente nel caso di particelle sulle quali agiscono delle forze. È questo il caso degli stati stazionari, quali l’elettrone nell’atomo, per i quali la funzione d’onda Y  è diversa da zero e ha quindi significato solo per determinati valori di energia. Le soluzioni delle equazioni di Schödinger definiscono perciò gli stati stabili dei sistemi fisici e la funzione Y  rende matematicamente conto alle orbite quantizzate che garantiscono la solidità atomica.
  L’atomo risulta composto da nuclei puntiformi pesanti, dove è racchiusa la carica positiva, e da elettroni, con carica negativa, che avvolgono il nucleo secondo le equazioni di Schrödinger che vincola l’onda elettronica in una particolare configurazione energetica che può essere rappresentata attraverso tre numeri quantici che identificano, rispettivamente, la distanza dal nucleo, la forma e l’orientamento spaziale delle orbite.


 Il numero quantico principale, indicato dalla lettera n, chiarisce il livello energetico dell’elettrone proporzionalmente alla sua distanza dal nucleo, può assumere solo valori interi da 1 a + ¥. Più alto è il numero più grandi sono gli orbitali e più aumenta la loro energia; spesso anziché utilizzare i numeri per i differenti strati di energia si usano le lettere K, L, M, N, O...
  Il numero quantico secondario, o angolare o azimutale, rappresentato con la lettera l, assume tutti i valori compresi in n-1 cioè 0, 1, 2, 3... Questo numero quantico, scritto frequentemente con le lettere s, p, d, f, g... specifica le caratteristiche geometriche dell’orbitale. Così, ad esempio, l’orbitale s ha la forma di una nuvola sferica (di probabilità) e l’orbitale p ha la forma di due lobi (a forma di 8) per le tre dimensioni dello spazio.
  Il numero quantico magnetico, ml, è il numero dei differenti orientamenti che l’orbitale può assumere per effetto di un campo magnetico esterno con un valore massi mari a 2l+1, con valori compresi tra + l e -l.
  Un quarto numero quantico è necessario e specifico per l’elettrone. La suddivisione delle triplette in ulteriori righe, cioè l’effetto Zeeman anomalo, la struttura fine delle righe spettrali e gli effetti giromagnetici, si spiegano solo con la supposizione della rotazione dell'elettrone sul proprio asse (G.E. Uhlenbeck, S.A. Goudsmit, 1925). Ed è proprio questo concetto che giustifica la presenza di due elettroni nello stesso orbitale. Si può formulare il quarto numero quantico attraverso il principio di esclusione (W. Pauli, 1925): due elettroni possono occupare la stessa orbita solo se hanno il valore dello spin opposto. Il numero quantico di spin, ms, può assumere solo due valori: +½ e -½. 
  L’interpretazione fisica della meccanica ondulatoria (M. Born, W. Heisemberg, N. Bohr, 1926) descrive il concetto di probabilità di transizione, cioè la probabilità in un dato istante che un corpo possa essere associato ad una determinata posizione nello spazio. Il quadrato della funzione d’onda Y  descrive allora il moto dei corpi in modo probabilistico. L’equazione di Schödinger è, di fatto, l’ampiezza (l’intensità, l’energia) delle onde di materia e la particella avrà più probabilità di essere localizzata nello spazio e nel tempo dove l’ampiezza della funzione d’onda Y  è grande. Allora gli orbitali degli atomi altro non sono che la funzione d’onda Y a cui sono stati assegnati i valori dei numeri quantici. E la funzione d’onda assume significato quando si considera un intorno tanto ampio da avere un’alta probabilità che l’elettrone si trovi in tale intorno. La probabilità di trovare l’elettrone in un dato punto dello spazio può essere più o meno elevata e si parla impropriamente di forma dell’orbitale.
  Frattanto, mentre l’interesse generale è rivolto alla corteccia esterna dell’atomo, si suggerisce l’esistenza di un’altra particella neutra situata nel nucleo – con una dimensione più piccola di quella dell’atomo di idrogeno – e che deriverebbe dalla combinazione di un protone ed un elettrone così da giustificare la  presenza degli isotopi (E. Rutherford, 1920).
  La scoperta del neutrone (J. Chadwick, 1932) conferma che i nuclei, che hanno una dimensione da 10.000 a 100.000 volte inferiore a quella dell’atomo, sono costituiti da protoni e neutroni in opportune combinazioni tali da spiegare le tavole dei pesi e dei numeri atomici.
  Elettrone, protone e neutrone – tre sole particelle – e un’unica forza, quella elettromagnetica, per spiegare le molteplici proprietà della materia (la forza gravitazionale è considerata solo nel macrocosmo).
  Ma se il microcosmo è costruito con tre particelle e governato da un’unica forza, che agisce grazie al fotone, il problema della compattezza del nucleo non è comunque risolto: come possono stare uniti assieme protoni e neutroni? I protoni si dovrebbero addirittura respingere tra loro e sui neutroni, privi di carica elettrica,  la forza elettromagnetica non può agire! È fin troppo evidente la criticità della stabilità nucleare…
   A complicare ulteriormente questa visione c’è anche la problematica relativa al decadimento b. Lo studio dei raggi b nel decadimento radioattivo ha già dimostrato che esso può avvenire secondo un’ampia gamma di energie (J. Chadwick, 1913). L’energia di tali raggi sommata a quella del nuovo nucleo prodotto (con numero atomico immediatamente superiore a quello originario) non coincide però con l’energia dell’atomo radioattivo prima del decadimento (J. Chadwick, C.D. Ellis, W. A. Wooster, 1929). All’aumentare o al diminuire dell’energia dell’elettrone emesso nei raggi b non corrisponde, come invece ci si aspetta, una minor o maggior energia del nuovo nucleo prodotto. Come spiegare questa mancanza di energia?




[1] Lo studio sugli ioni positivi porta a suggerire il nome di protone, dal greco pròton primo (componente del nucleo) per la particella identificata come il nucleo dell’atomo di idrogeno (E. Rutherford, 1919-1920).
[2] Il solfuro di zinco emette scintille luminose quando viene colpito da particelle alfa; è consuetudine ricordare lo stupore dello stesso Rutherford attraverso le sue parole “(…) è come sparare un proiettile da 15 pollici su un foglio di carta velina e vederlo tornare indietro a colpirti (…).”
[3] Molto vicino al valore attuale, 1,6*10-19 Coulomb oppure 4,8*10-10 ues (unità elettrostatiche).
[4] Soggetto cioè ad accelerazione radiale.
[5] Tutto questo forse sottovalutando la spiegazione di come possono restare unite in un nucleo compatto particelle con la stessa carica elettrica senza subire l’effetto di repulsione l’una con l’altra.
[6] Conseguentemente r = n(h/2π)/vm.
[7] L’effetto fotoelettrico assegna alla propagazione delle onde elettromagnetiche un comportamento discontinuo, di tipo corpuscolare e l’effetto Compton ne ha conferma la validità.
[8] Più in generale, questo strano dualismo di onde e corpuscoli deve forse essere sempre considerato ogni volta che ci ritroviamo la costante di Planck?
[9] Anche riducendo di 1.000.000 di volte la massa la lunghezza d’onda, pari a 6,6 *10-28, non può essere rilevata.
[10] Sebbene i valori trascurabili nella fisica classica assumono prepotentemente significato nel microcosmo, il principio di corrispondenza dimostra che è sempre la meccanica classica il limite a cui tende la meccanica quantistica quando si assegnano valori molto grandi ai numeri quantici.
[11] V. post il principio di indeterminazione.
[12] Come un pacchetto di onde.

martedì 1 agosto 2017

Il principio di indeterminazione

I nostri occhi percepiscono la forma (e il colore) degli oggetti perché questi riflettono la luce dalla quale sono illuminati.
Con le lenti di ingrandimento possiamo distinguere più dettagli ma, in ogni caso, anche con l’ausilio dei microscopi ottici, il limite è quello della lunghezza d’onda della luce utilizzata (tralasciando le questioni tecniche relative alla qualità delle lenti e alle dimensione degli oculari/obbiettivi) e quando quest’ultima è paragonabile a quella dell’oggetto di indagine – o alla distanza tra due oggetti che si vogliono osservare – si assiste al fenomeno della diffrazione e si è raggiunto il limite dello strumento. Con la luce visibile, che ha una lunghezza media di 0,5*10-6 m, è possibile arrivare ad una risoluzione di circa 0,2*10-6 m mentre, con il microscopio elettronico, che usa gli elettroni in qualità di sonda, è possibile arrivare a 5*10-11 m. [1]
  Da un punto di vista concettuale è altresì possibile evidenziare come l’utilizzo della radiazione elettromagnetica in luogo di sonda, ad esempio per determinare la posizione di un elettrone, interferisca a tal punto da condizionare il risultato della misura.
  Anche nel mondo quotidiano lo strumento di misura altera la misurazione. Così un termometro che rileva la temperatura dell’acqua calda posta in un recipiente assorbe calore e ne modifica, in modo davvero impercettibile, la temperatura. Questo errore è di gran lunga inferiore all’imprecisione della misura del termometro ed è, per questo, insignificante.
  Ma, più in generale, si enuncia un principio che definisce il limite intrinseco della misura stessa e l’impossibilità di determinare, contemporaneamente e con precisione a piacere, due parametri di una stessa misura.
  Il principio di indeterminazione (W. Heinsenberg, 1925) impone infatti coppie di grandezze coniugate, quali energia-tempo e posizione-quantità di moto, in cui la precisione dell’una rende più incerta la misura dell’altra.
  Il prodotto dell’incertezza della misura, ad esempio quello della posizione Dx  e della quantità di moto Dp (e, conseguentemente, velocità, Dvx), o dell’energia totale DE e del tempo Dt, è maggiore o uguale alla costante di Planck secondo le relazioni:

Dx*Dp ³ ½ ħ

DE*Dt ³ ½ ħ

  con ħ = h/2π.

  Verifichiamo l’imprecisione della misura su un corpuscolo di polvere delle dimensioni di circa 10-5 m, una massa di 10-14 kg e che si muove alla velocità di 10-2 m/s (la velocità di una comune lumaca, la chiocciola zigrinata). In questo caso il prodotto dell’imprecisione della posizione e della velocità deve produrre al massimo un valore di circa 5,27*10-21 così da rispettare il limite imposto dalla relazione ½ ħ /m. [2]
  Naturalmente sono molteplici i valori con cui possiamo combinare l’imprecisione della velocità e della posizione per ottenere un valore di 10-21. Attribuiamo alla velocità una imprecisione Dvx pari a 10-9 m/s e alla posizione una imprecisione Dx pari a 10-12 m. Sono soddisfacenti tali livelli di imprecisione? L’ordine di grandezza dell’errore rispetto alla velocità è dato dal rapporto dell’imprecisione della velocità e la velocità stessa del corpuscolo, cioè 10-9/10-2 = 10-7, un errore dieci milioni di volte inferiore alla sua velocità. Similmente l’ordine di grandezza dell’errore rispetto alla misura dello spazio è dato dal rapporto tra l’indeterminazione della dimensione assegnata e la sua dimensione reale cioè 10-12/10-5 = 10-7, anche in questo caso un errore dieci milioni di volte inferiore alle sue dimensioni. La precisione con la quale sono determinati velocità e posizione è davvero soddisfacente.
  Proviamo ora a calcolare l’imprecisione della misura relativa ad un elettrone che ha una massa di circa 10-30 kg e una velocità di 6*106 m/s (velocità alla quale un elettrone potrebbe ruotare attorno al nucleo dell’atomo). Imponendo l’1% di errore rispetto la velocità paghiamo con una imprecisione nella posizione 10-9  m che è un valore circa 10 volte superiore alle dimensioni di un atomo.[3]
  L’utilizzo della radiazione elettromagnetica in qualità di sonda comporta, come effetto, una pressione nella direzione del moto, una energia di tipo meccanico, pari a E/c (J.C. Maxwell, 1873). I fotoni possiedono dunque un’energia pari a hf ma anche un impulso uguale a E/c cioè h/l!  
  Calcoliamo qQQuale effetto produce l’impulso della radiazione elettromagnetica rispettivamente sul corpuscolo di polvere e sull’elettrone.
  Consideriamo un’onda elettromagnetica della frazione dei raggi gamma (ʎ = 1013 m) che ha un impulso pari a 6,625*10-21 kg * m/s (h/ʎ). La quantità di moto del corpuscolo (mv) è 1,00*10-16 kg * m/s, circa 15.000 volte superiore e, nella collisione, non subisce, di fatto, nessun effetto sulla sua quantità di moto del corpuscolo.[4]
  La quantità di moto dell’elettrone, 6*10-24 kg * m/s, è, di contro, inferiore di 1100 volte a quella del fotone. È la stessa differenza che esiste tra un autotreno con massa di 22.000 kg e procede alla velocità di 180 km/h e un ciclista con una massa totale di 100 kg e con velocità di 36 km/h.
  In conclusione il principio di indeterminazione afferma che non è possibile ottenere contemporaneamente due informazioni di uno stesso fenomeno con precisione a piacere e non potremo dunque mai assegnare al vuoto una energia e la sua rapidità di variazione come uguale a zero perché esiste sempre una minima incertezza sull’energia presente.




[1] Sfruttando la lunghezza d’onda associata al movimento di qualsiasi corpo secondo la relazione λ= h/p e anticipando l’argomento del prossimo post.
[2] Se nella relazione Dx*Dp ³ ½ ħ sostituiamo Dp con Dmv otteniamo Dx*Dvx ³  ½ ħ /m.
[3] Se l’incertezza della velocità è pari all’1% della sua velocità si ha Dvx = vx* 1/100 = 6*106 * 1/100 = 6*104 m/s con l’incertezza nella posizione che risulta essere = ½ ħ / m Dvx = ½ (6,625*10-34)/2*3,14))/((10^-30)*(6*104)) 109.
[4] Diverso è il discorso, se trattasi di una cellula, della modificazione che il DNA potrebbe subire.