martedì 1 agosto 2017

Il principio di indeterminazione

I nostri occhi percepiscono la forma (e il colore) degli oggetti perché questi riflettono la luce dalla quale sono illuminati.
Con le lenti di ingrandimento possiamo distinguere più dettagli ma, in ogni caso, anche con l’ausilio dei microscopi ottici, il limite è quello della lunghezza d’onda della luce utilizzata (tralasciando le questioni tecniche relative alla qualità delle lenti e alle dimensione degli oculari/obbiettivi) e quando quest’ultima è paragonabile a quella dell’oggetto di indagine – o alla distanza tra due oggetti che si vogliono osservare – si assiste al fenomeno della diffrazione e si è raggiunto il limite dello strumento. Con la luce visibile, che ha una lunghezza media di 0,5*10-6 m, è possibile arrivare ad una risoluzione di circa 0,2*10-6 m mentre, con il microscopio elettronico, che usa gli elettroni in qualità di sonda, è possibile arrivare a 5*10-11 m. [1]
  Da un punto di vista concettuale è altresì possibile evidenziare come l’utilizzo della radiazione elettromagnetica in luogo di sonda, ad esempio per determinare la posizione di un elettrone, interferisca a tal punto da condizionare il risultato della misura.
  Anche nel mondo quotidiano lo strumento di misura altera la misurazione. Così un termometro che rileva la temperatura dell’acqua calda posta in un recipiente assorbe calore e ne modifica, in modo davvero impercettibile, la temperatura. Questo errore è di gran lunga inferiore all’imprecisione della misura del termometro ed è, per questo, insignificante.
  Ma, più in generale, si enuncia un principio che definisce il limite intrinseco della misura stessa e l’impossibilità di determinare, contemporaneamente e con precisione a piacere, due parametri di una stessa misura.
  Il principio di indeterminazione (W. Heinsenberg, 1925) impone infatti coppie di grandezze coniugate, quali energia-tempo e posizione-quantità di moto, in cui la precisione dell’una rende più incerta la misura dell’altra.
  Il prodotto dell’incertezza della misura, ad esempio quello della posizione Dx  e della quantità di moto Dp (e, conseguentemente, velocità, Dvx), o dell’energia totale DE e del tempo Dt, è maggiore o uguale alla costante di Planck secondo le relazioni:

Dx*Dp ³ ½ ħ

DE*Dt ³ ½ ħ

  con ħ = h/2π.

  Verifichiamo l’imprecisione della misura su un corpuscolo di polvere delle dimensioni di circa 10-5 m, una massa di 10-14 kg e che si muove alla velocità di 10-2 m/s (la velocità di una comune lumaca, la chiocciola zigrinata). In questo caso il prodotto dell’imprecisione della posizione e della velocità deve produrre al massimo un valore di circa 5,27*10-21 così da rispettare il limite imposto dalla relazione ½ ħ /m. [2]
  Naturalmente sono molteplici i valori con cui possiamo combinare l’imprecisione della velocità e della posizione per ottenere un valore di 10-21. Attribuiamo alla velocità una imprecisione Dvx pari a 10-9 m/s e alla posizione una imprecisione Dx pari a 10-12 m. Sono soddisfacenti tali livelli di imprecisione? L’ordine di grandezza dell’errore rispetto alla velocità è dato dal rapporto dell’imprecisione della velocità e la velocità stessa del corpuscolo, cioè 10-9/10-2 = 10-7, un errore dieci milioni di volte inferiore alla sua velocità. Similmente l’ordine di grandezza dell’errore rispetto alla misura dello spazio è dato dal rapporto tra l’indeterminazione della dimensione assegnata e la sua dimensione reale cioè 10-12/10-5 = 10-7, anche in questo caso un errore dieci milioni di volte inferiore alle sue dimensioni. La precisione con la quale sono determinati velocità e posizione è davvero soddisfacente.
  Proviamo ora a calcolare l’imprecisione della misura relativa ad un elettrone che ha una massa di circa 10-30 kg e una velocità di 6*106 m/s (velocità alla quale un elettrone potrebbe ruotare attorno al nucleo dell’atomo). Imponendo l’1% di errore rispetto la velocità paghiamo con una imprecisione nella posizione 10-9  m che è un valore circa 10 volte superiore alle dimensioni di un atomo.[3]
  L’utilizzo della radiazione elettromagnetica in qualità di sonda comporta, come effetto, una pressione nella direzione del moto, una energia di tipo meccanico, pari a E/c (J.C. Maxwell, 1873). I fotoni possiedono dunque un’energia pari a hf ma anche un impulso uguale a E/c cioè h/l!  
  Calcoliamo qQQuale effetto produce l’impulso della radiazione elettromagnetica rispettivamente sul corpuscolo di polvere e sull’elettrone.
  Consideriamo un’onda elettromagnetica della frazione dei raggi gamma (ʎ = 1013 m) che ha un impulso pari a 6,625*10-21 kg * m/s (h/ʎ). La quantità di moto del corpuscolo (mv) è 1,00*10-16 kg * m/s, circa 15.000 volte superiore e, nella collisione, non subisce, di fatto, nessun effetto sulla sua quantità di moto del corpuscolo.[4]
  La quantità di moto dell’elettrone, 6*10-24 kg * m/s, è, di contro, inferiore di 1100 volte a quella del fotone. È la stessa differenza che esiste tra un autotreno con massa di 22.000 kg e procede alla velocità di 180 km/h e un ciclista con una massa totale di 100 kg e con velocità di 36 km/h.
  In conclusione il principio di indeterminazione afferma che non è possibile ottenere contemporaneamente due informazioni di uno stesso fenomeno con precisione a piacere e non potremo dunque mai assegnare al vuoto una energia e la sua rapidità di variazione come uguale a zero perché esiste sempre una minima incertezza sull’energia presente.




[1] Sfruttando la lunghezza d’onda associata al movimento di qualsiasi corpo secondo la relazione λ= h/p e anticipando l’argomento del prossimo post.
[2] Se nella relazione Dx*Dp ³ ½ ħ sostituiamo Dp con Dmv otteniamo Dx*Dvx ³  ½ ħ /m.
[3] Se l’incertezza della velocità è pari all’1% della sua velocità si ha Dvx = vx* 1/100 = 6*106 * 1/100 = 6*104 m/s con l’incertezza nella posizione che risulta essere = ½ ħ / m Dvx = ½ (6,625*10-34)/2*3,14))/((10^-30)*(6*104)) 109.
[4] Diverso è il discorso, se trattasi di una cellula, della modificazione che il DNA potrebbe subire.

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