Con le lenti di
ingrandimento possiamo distinguere più dettagli ma, in ogni caso, anche con l’ausilio
dei microscopi ottici, il limite è quello della lunghezza d’onda della luce
utilizzata (tralasciando le questioni tecniche relative alla qualità delle
lenti e alle dimensione degli oculari/obbiettivi) e quando quest’ultima è paragonabile
a quella dell’oggetto di indagine – o alla distanza tra due oggetti che si
vogliono osservare – si assiste al fenomeno della diffrazione e si è raggiunto
il limite dello strumento. Con la luce visibile, che ha una lunghezza media di
0,5*10-6 m, è
possibile arrivare ad una risoluzione di circa 0,2*10-6
m mentre, con il microscopio
elettronico, che usa gli elettroni in qualità di sonda, è possibile arrivare a
5*10-11 m. [1]
Da
un punto di vista concettuale è altresì possibile evidenziare come l’utilizzo
della radiazione elettromagnetica in luogo di sonda, ad esempio per determinare
la posizione di un elettrone, interferisca a tal punto da condizionare il
risultato della misura.
Anche
nel mondo quotidiano lo strumento di misura altera la misurazione. Così un
termometro che rileva la temperatura dell’acqua calda posta in un recipiente
assorbe calore e ne modifica, in modo davvero impercettibile, la temperatura.
Questo errore è di gran lunga inferiore all’imprecisione della misura del
termometro ed è, per questo, insignificante.
Ma,
più in generale, si enuncia un principio che definisce il limite intrinseco
della misura stessa e l’impossibilità di determinare, contemporaneamente e con
precisione a piacere, due parametri di una stessa misura.
Il
principio di indeterminazione (W. Heinsenberg, 1925) impone infatti coppie di
grandezze coniugate, quali energia-tempo e posizione-quantità di moto, in cui
la precisione dell’una rende più incerta la misura dell’altra.
Il
prodotto dell’incertezza della misura, ad esempio quello della posizione Dx
e della quantità di moto Dp (e, conseguentemente, velocità, Dvx), o dell’energia totale DE e del tempo Dt, è maggiore o uguale alla costante di
Planck secondo le relazioni:
Dx*Dp ³
½ ħ
DE*Dt
³
½ ħ
con ħ = h/2π.
Verifichiamo
l’imprecisione della misura su un corpuscolo di polvere delle dimensioni di
circa 10-5 m, una massa di
10-14 kg e che si muove
alla velocità di 10-2 m/s (la
velocità di una comune lumaca, la chiocciola zigrinata). In questo caso il
prodotto dell’imprecisione della posizione e della velocità deve produrre al
massimo un valore di circa 5,27*10-21 così da rispettare il
limite imposto dalla relazione ½ ħ /m. [2]
Naturalmente
sono molteplici i valori con cui possiamo combinare l’imprecisione della
velocità e della posizione per ottenere un valore di ≈ 10-21. Attribuiamo alla velocità una imprecisione Dvx pari a 10-9 m/s e alla posizione una imprecisione Dx pari a 10-12 m. Sono soddisfacenti tali livelli di
imprecisione? L’ordine di grandezza dell’errore rispetto alla velocità è dato
dal rapporto dell’imprecisione della velocità e la velocità stessa del
corpuscolo, cioè 10-9/10-2 =
10-7, un errore dieci milioni di volte inferiore alla sua velocità.
Similmente l’ordine di grandezza dell’errore rispetto alla misura dello spazio
è dato dal rapporto tra l’indeterminazione della dimensione assegnata e la sua
dimensione reale cioè 10-12/10-5 =
10-7, anche in questo caso un errore dieci milioni di volte
inferiore alle sue dimensioni. La precisione con la quale sono determinati
velocità e posizione è davvero soddisfacente.
Proviamo
ora a calcolare l’imprecisione della misura relativa ad un elettrone che ha una
massa di circa 10-30 kg e una
velocità di 6*106 m/s (velocità
alla quale un elettrone potrebbe ruotare
attorno al nucleo dell’atomo). Imponendo l’1% di errore rispetto la
velocità paghiamo con una
imprecisione nella posizione ≈ 10-9 m che è un valore circa 10
volte superiore alle dimensioni di un atomo.[3]
L’utilizzo
della radiazione elettromagnetica in qualità di sonda comporta, come effetto,
una pressione nella direzione del moto, una energia di tipo meccanico, pari a E/c
(J.C. Maxwell, 1873). I fotoni possiedono dunque un’energia pari a hf ma anche un impulso uguale a E/c cioè h/l!
Calcoliamo
q uale effetto produce l’impulso
della radiazione elettromagnetica rispettivamente sul corpuscolo di polvere e
sull’elettrone.
Consideriamo
un’onda elettromagnetica della frazione dei raggi gamma (ʎ = 1013 m)
che ha un impulso pari a 6,625*10-21 kg * m/s (h/ʎ).
La quantità di moto del corpuscolo (mv)
è 1,00*10-16 kg * m/s, circa 15.000 volte superiore e, nella
collisione, non subisce, di fatto, nessun effetto sulla sua quantità di moto
del corpuscolo.[4]
La
quantità di moto dell’elettrone, 6*10-24 kg * m/s, è, di contro, inferiore di 1100 volte a
quella del fotone. È la stessa differenza che esiste tra un autotreno con massa
di 22.000 kg e procede alla velocità
di 180 km/h e un ciclista con una massa
totale di 100 kg e con velocità di 36
km/h.
In
conclusione il principio di indeterminazione afferma che non è possibile
ottenere contemporaneamente due informazioni di uno stesso fenomeno con
precisione a piacere e non potremo dunque mai assegnare al vuoto una energia e la
sua rapidità di variazione come uguale a zero perché esiste sempre una minima incertezza sull’energia presente.
[1] Sfruttando la
lunghezza d’onda associata al movimento di qualsiasi corpo secondo la relazione
λ= h/p e anticipando l’argomento del prossimo
post.
[3]
Se l’incertezza
della velocità è pari all’1% della sua velocità si ha Dvx = vx*
1/100 = 6*106 * 1/100 = 6*104 m/s con
l’incertezza
nella posizione che risulta essere = ½ ħ / m Dvx = ½ (6,625*10-34)/2*3,14))/((10^-30)*(6*104))
≈ 109.
[4] Diverso è il
discorso, se trattasi di una cellula, della modificazione che il DNA potrebbe
subire.
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