E
= h f
Oppure:
E
= hc/l
L’energia
di un fotone dei raggi X risulta così
essere 50.000 volte superiore a quella di un fotone della luce visibile giacché
la sua frequenza è 50.000 volte superiore.[2]
A
temperatura costante l’intensità della radiazione emessa da un corpo aumenta rapidamente
fino a un valore massimo per poi decrescere più lentamente. [3]
Il
legame h f
spiega anche un’altra questione ancora aperta da tempo. Era già noto alla fine
dell’800 che la superficie di un metallo irradiata con raggi ultravioletti
emette elettroni (H.R. Hertz, 1887; W.L.F. Hallwachs, 1888; P.E.A. von Lenard,
1899). [4]
Ciò
significa che l’energia della luce si è in parte trasformata nell’energia
cinetica degli elettroni espulsi dal metallo dando luogo al cosiddetto effetto
fotoelettrico. E, contrariamente a quanto si potrebbe ipotizzare, all’aumentare
dell’intensità della radiazione non coincide una maggior energia degli elettroni,
ma solo un loro maggior emissione in termini di numero. In effetti, se la luce
fosse un’onda la forza di espulsione
degli elettroni dal metallo dovrebbe dipendere dalla sua intensità e non dalla
sua frequenza mentre, di contro, quello che aumenta la velocità degli elettroni
emessi è proprio la frequenza della radiazione incidente. La luce blu
conferisce maggior velocità agli elettroni rispetto, ad esempio, alla luce
gialla. Una debole intensità della luce blu causa una minor emissione nel
numero di elettroni rispetto ad una luce molto intensa di colore giallo, ma la
loro velocità è sempre superiore. La luce rossa, poi, non provoca, in alcuni
metalli, l’emissione di elettroni. Per ogni metallo esiste una frequenza di
soglia al di sotto della quale l’effetto fotoelettrico non ha luogo (per il
potassio, ad esempio, la luce rossa non consente l’emissione di elettroni e la
frequenza di soglia è nel verde). Se, invece, la frequenza è maggiore della
frequenza di soglia, la velocità degli elettroni emessi aumenta
proporzionalmente alla differenza tra la frequenza della radiazione incidente e
la frequenza di soglia.
La
descrizione ondulatoria della luce non riesce a dare una spiegazione
soddisfacente all’effetto fotoelettrico. Perché, ad una radiazione più intensa,
non corrisponde una maggior energia cinetica degli elettroni emessi? Quale
legame esiste cioè tra frequenza della radiazione incidente e l’energia degli
elettroni?
L’effetto
fotoelettrico può essere spiegato ammettendo che la luce sia composta da grani di energia E = hf (A. Einstein, 1905): sì, proprio gli stessi
quanti di luce che spiegano la radiazione del corpo nero. Se la luce si propaga
attraverso grani di energia, definiti successivamente fotoni (G. Lewis, 1926; V
Congresso Solvay, 1927), gli elettroni del metallo o assorbono esattamente un
fotone, sufficiente a superare l’energia di soglia per essere così espulsi,
oppure è inutile aumentare l’intensità della radiazione incidente perché si
aumenta il numero di fotoni inviati al metallo, ma non la loro energia. Se,
viceversa, si supera la frequenza di soglia, il numero di elettroni emessi sarà
tanto maggiore quanto più intensa è la radiazione incidente. E aumentando
ancora la frequenza della radiazione incidente aumenterà ulteriormente
l’energia degli elettroni emessi.
L’unità
hf, introdotta inizialmente per rendere conto allo spettro di
emissione del corpo nero, non è allora un mero artificio di calcolo perché
trova nell’effetto fotoelettrico, cioè nella teoria quantistica della luce, un
significato fisico più preciso: la luce ha un comportamento tipico dei
corpuscoli! Questo aspetto è definitivamente confermato dall’effetto Compton
(A.H. Compton, 1923) che si manifesta quando un fascio monocromatico di raggi X con una determinata frequenza (e, a
maggior ragione, di raggi g) colpisce della grafite e viene, in
parte, diffuso con una lunghezza d’onda maggiore rispetto a quella incidente.
Se
la luce fosse considerata un fenomeno esclusivamente ondulatorio l’onda che
colpisce la grafite dovrebbe avere la stessa frequenza dell’onda diffusa ma, di
contro, nelle rilevazioni sperimentali è possibile osservare due distinti
picchi corrispondenti sia alla lunghezza d’onda originaria sia a una lunghezza
d’onda maggiore. Solo assegnando al fotone anche un impulso (una quantità di
moto), pensando cioè alla radiazione come ad un fenomeno corpuscolare, si
spiega la diffusione dei raggi X con
una la variazione della loro lunghezza d’onda, dovuta alla cessione di energia
nella collisione con elettroni. Il fenomeno può essere così spiegato perché la
radiazione, composta da fotoni, si comporta proprio come una particella e,
quando il fotone colpisce un elettrone degli atomi della grafite, produce un
urto elastico che obbedisce al principio di conservazione dell’energia e della
quantità di moto. Nell’urto, il fotone devia dalla direzione originale secondo
un certo angolo cedendo parte della sua energia all’elettrone che inizia a
muoversi nella direzione opposta. E proprio perché il fotone lascia parte della
sua energia all’elettrone, dovrà essere diffuso con una lunghezza d’onda
maggiore di quella incidente (esattamente come rilevato sperimentalmente)
giacché la sua energia è inversamente proporzionale alla sua lunghezza d’onda.
In
conclusione, è considerando il dualismo onda-corpuscolo della radiazione
elettromagnetica che si spiegano i fenomeni legati alla sua interazione con la
materia.
[1]
Per quantificare l’energia è possibile utilizzare come unità
di misura il joule (J). Più in
specifico il joule è l’unità di
misura dell’energia, del lavoro e del calore con dimensione kg*m2/s2. Un
joule è il lavoro svolto esercitando
la forza di un Newton per una
distanza di un metro (1 N*m; è cioè il lavoro compiuto da 1 Newton quando il suo punto di applicazione si sposta di 1 m nella direzione e nel verso della
forza stessa; un Newton è la forza
che imprime un’accelerazione di 1 m/s2
alla massa di 1 kg cioè l’energia
necessaria per spostare di 1 metro il punto di applicazione di una forza ovvero
un joule è il lavoro richiesto per
sollevare una massa di 102 g
per un metro, opponendosi alla forza
di gravità terrestre. Un joule è
anche il lavoro necessario per erogare la potenza di un watt per un secondo, (=1 W*s).
Poiché il lavoro di una forza, che si esprime in joule, aumenta l’energia cinetica del
corpo al quale è applicata, anche l’energia cinetica può essere espressa in joule. È facile calcolare l’energia cinetica dei corpi se esprimiamo la loro
massa in kg e la loro velocità in m/s. Un joule equivale all’energia cinetica (½mv2) di un sasso della massa di 0,5 kg che viaggia alla velocità di 2 m/s (la velocità alla quale cammina
normalmente un uomo) ovvero una massa
di 1 kg con velocità di 1 m/s esprime una energia cinetica di 0,5 J. Similmente, un corpo di 1 kg che si muove alla velocità di 3 m/s ha un’energia cinetica (½mv2) di ½*1*32
cioè 4,5 joule; similmente un corpo
con massa 10 kg che si muove con una
velocità di 1 m/s ha un’energia
cinetica di 5 joule mentre un sasso
con massa di 0,100 kg che viaggia
alla velocità di 10 m/s oppure
l’energia di un corpo con massa di 1 kg
che viaggia ad una velocità di 1,42 m/s
hanno un’energia cinetica di 1 joule.
[2] La
frequenza dei raggi X è di 3*1019 Hz con una energia di 1,9875*10-14 J mentre la luce visibile ha una frequenza di 6*1014 Hz e l’energia di un fotone è di 3,975*10-19 J.
[3] L’equazione dell’irraggiamento
termico è descritta dalla relazione (8phc2/λ5)*(1/(ehc/λkT -1)) dove e rappresenta il numero di Eulero uguale
a 2,71828..., k è la costante di
Boltzmann pari a 1,38*10-23 JK-1, T la temperatura del corpo espressa in gradi
kelvin, λ è la lunghezza d’onda della
radiazione e h la costante di Planck.
La formula è stata qui riportata perché ha segnato la nascita di una nuova
fisica, la meccanica quantistica, ma anche per
dare la possibilità di costruire con Excel un grafico dell’andamento
dell’emissione.
[4] Una placca di
zinco bombardata con radiazione ultravioletta si caricava cioè elettricamente.
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